Prefazione per “Sciugarfrì”, racconti di Rosario Mastrota

Prefazione di Ernesto Orrico alla raccolta di racconti Sciugarfrì di Rosario Mastrota, edita da Loquendo.

Rosario Mastrota è un attore di teatro. Non solo, è un autore di teatro. Sì ma scrive anche racconti. O sono i suoi testi teatrali sotto mentite spoglie? Semplicemente tutte queste cose e altre ancora. Mentre scrivo, sfoglio la sua raccolta di poesie Chiassi e ricordo il delizioso e acerbo cortometraggio Rosso. Per dirla in breve, e senza girarci ulteriormente intorno, Rosario è uno scrittore. Uno che il mondo lo affronta in punta di penna. Uhm no di questi tempi forse si potrebbe dire, in punta di tastiera.
Scrivere, riscrivere, modificare, cancellare, adattare e via così a cercare spazio nell’angusto mondo della “produzione culturale” italiana. Perché anche di questo si tratta, farsi spazio, erompere con personalità e gusto in questo mare magnum di italiani tuttiautori, tuttiregisti, tuttiattori, tuttimusicisti, tuttipolitici, tuttitutto. È la contemporaneità baby e tu non puoi farci niente. Puoi solo abitarla con coscienza o indifferenza, con disincanto o attaccamento morboso e Mastrota nei suoi scritti la contemporaneità decide di attaccarla proprio alla gola. Prima la acchiappa in maniera morbida immergendo il lettore in scenari che appaiono consueti, consegnandogli personaggi che pare di conoscere da sempre, ma all’improvviso arriva il morso dell’autore e tutto cambia. Quella che sembrava una realtà conosciuta, familiare, rassicurante e definita diventa abisso, caduta in una realtà geneticamente modificata, aumentata di estrogeni narrativi, gonfiata da artifici linguistici che arrivano diritti diritti dal mondo dei media. Dalla televisione, madre-cagna di una generazione che negli anni ’80 e ’90 del Novecento si è nutrita alla sue oscene, voluttuose e calde mammelle.
E non è forse questo il compito della letteratura? Altrimenti ci troveremmo davanti alla cronaca, magari anche ben fatta, ben scritta, minuziosa e precisa, ma quando leggiamo un racconto, un romanzo, una fiction cosa cerchiamo veramente? Un inabissamento, una caduta verticale in un buco nero che paradossalmente è lì per svelarci la complessità del mondo che respiriamo, per costringerci ad aprire gli occhi, un buco nero che acceca con la sua potenza, che dopo lo stordimento del buio ti rivela la luce della conoscenza, quella vera, quella che solo la fantasia più sfrenata è capace di animare. È una realtà problematizzata, quella che si para davanti all’occhio di chi legge questi racconti, per il lettore, le certezze si smontano e gli interrogativi si moltiplicano, la catarsi è allontanata inesorabilmente, e il gusto post-moderno, gravido di confusione stilistica e formale, conduce verso una narrazione come forma di conoscenza.
Questi scritti sono come fari accesi sulla società italiana degli ultimi anni, c’è tanto territorio, ci sono i nostri spazi comuni, le nostre vie, le nostre case, le nostre piazze, dalla provincia alle città, passando dalle amate montagne del Pollino si srotolano davanti ai nostri occhi frammenti spaziali popolati da personaggi che esplodono fuori dalla pagina per ricordarci il nostro vicino di casa taciturno, la nostra compagna di scuola persa di vista, il nostro lontano parente da tutti definito “pazzo”… o semplicemente per metterci davanti parti di noi stessi, noi sempre più precari, sempre più attaccati alla possibilità di sopravvivere solo grattando un biglietto o prendendo un aereo per fuggire in Australia.
Oppure sognare, sembra essere questa l’altra chiave di lettura che Mastrota traccia sulla carta, sogni allucinati dagli esiti ora comici e rassicuranti ora violenti e tragici. Una ricerca continua dello spiazzamento, del colpo teatrale, ancora della luce che stordisce o rivela; forte della sua pratica di palcoscenico, l’autore dissemina i suoi racconti di scene in cui la quarta parete è inesorabilmente abbattuta, ci porta dietro le quinte e ci fa respirare la stessa aria degli attori/protagonisti dei suoi scritti. In quest’epoca di crisi economica strisciante, in cui l’investimento economico per produrre teatro va via via assottigliandosi, l’autore teatrale trova il modo di produrre i suoi spettacoli, una produzione a bassissimo costo manifatturiero e ad altissima intensità culturale, il racconto.
Non ci troviamo difronte a testi intimisti e autoreferenziali, anzi, questi racconti sono tutti proiettati verso fuori, anche quelli dove l’attività onirica dell’autore è più evidente/invadente, nella gran parte si ritrovano elementi “critici” riferibili alla società contemporanea, come piccole pietruzze messe lì a fermare l’ingranaggio narrativo e a riportare il lettore ad un ricordo, ad un immagine che riguarda in maniera prepotente qualcosa di già visto, di già vissuto, ma filtrati attraverso la lente deformante dell’invenzione finzionale e ci si ritrova sbattuti davanti ad un mondo in cui più nessuna famiglia è normale, in cui ogni nucleo sociale è vittima di un errore di sistema, in cui ogni individualità è sottoposta ad un fallimento ineluttabile.