intervento di Silvio Stellato sullo spettacolo U Tingiutu

Ce ne sono di Aiace, di Agamennone, di Teucro, nei ranghi di casermoni asserragliati sul promontorio di Serra Spiga. Ce ne sono lungo il filo d’acqua sporca del Crati presso l’antichissima, quasi quanto gli Atridi, via Popilia. Ce ne sono nei quartierini piano rialzato di Torre Alta. Ce ne sono nelle agenzie di pompe funebri del Casertano, nelle fumose sale da biliardo di San giorgio a Cremano a Napoli, nei privè dei bar d’angolo sul lungo mare di Reggio di Calabria.
Ce ne sono per tutto il meridione, di Menelao, di Ulisse, di Achille beccati nel tallone. Anche se non sempre riconoscibili dal dettaglio clichè quale il grosso anello all’anulare o l’unghia lunga al mignolo o la capizza che fa capolino da quel cespuglio di pilu incorniciato nel collo di camicia sbottonata. A volte potresti scambiarli per impiegati, a volte per forestali, ma ce ne sono.
E se sei nato a queste latitudini mediterranee e magari t’azzardi pure, per caso o per necessità, a frequentare la strada, li conosci e riconosci, li rispetti e li temi e, inevitabilmente quasi, fino alla soglia dell’età adulta, li ammiri pure. Loro si che hanno le palle.
E questo è l’incipit vero de U Tingiutu che Scena verticale mette in scena ormai da venticinque repliche nei teatri dell’Italietta nostra, che di cotanti Aiace ed Agamennone è mamma col diritto di brevetto.
Tutto nasce quando fiorisce in Aiace nostro quel fior d’ammirazione per i “granni ca si vasanu”.
Questo è il punto della genesi d’ogni ndrangheta, mafia e camorra, fuor di buonismi e aspirazioni finto educational-channel.
Questo è il momento in cui l’Aiace ragazzino, nella realtà e nello spettacolo di Dario De Luca, realizza quello che vorrà fare da grande. Non il calciatore o l’astronauta, no, macché…roba da femminucce. Lui da grande vuole fare il boss.
E da questa verità che nasce il racconto di vita dei tanti Menelao de noartri, siciliani, calabresi o campani che siano. E da questa verità prende l’abbrivio, pure, il seme del male che germoglia nel cuore del protagonista de U Tingiutu, ubriaco d’infanzia, di fronte ad un’alfetta crivellata, abitata da un morto la cui erezione, spiega meglio d’ogni altro particolare, quanto crudo è ammazzare e morire ammazzati. “È normale, si è normale, quannu muari ammazzatu ca ti vena l’arrittazzuni”
Ma l’erezione di un cadavere non basta ai ragazzi di Cosenza, di Castrovillari, di Reggio, di Vibo, di Locri, di Gioia Tauro. Quella erezione non basta a dissuadere, se intorno a quella scena grottesco-sanguinolenta c’è un mondo di adulti che propaganda con fatti e parole quanto comandare sia meglio che fottere. E sebbene i giovani della vita vera non avranno una festa per la loro prima rapina, come accade all’Aiace del palcoscenico, il senso resta immutato. ‘A malavita, nelle città del meridione d’Italietta, è una cosa così reale che ne senti profumo e sapore appena cominci a uscire di casa, e l’ammiri si, l’ammiri quando sei ragazzino, perché di quegli eroi greci che impari a conoscere a scuola, “a gente dù giru” ha potenza e coraggio e onore e parola d’onore. Così si dice almeno.
E se poi invece capita che tu l’abbia già in casa, che la tua famiglia è appunto, malavitosa, allora è come nascere figlio di notaio. La strada verso un futuro assicurato è segnata. 
È questo il caso degli Atridi (M. Silani E. Orrico), dell’Aiace (De Luca) del Ulisse (F. Pellicori) e del Teucro (R. Mastrota) da palcoscenico de “u tingiutu”.  
Famiglie di malavita appunto. Soldati che conservano dei loro antenati epici, il senso dell’onore, del coraggio, della famiglia. E in questo pure, realtà e palcoscenico coincidono.
Il racconto epico si adatta come un trasferello alla realtà dei giorni nostri e Aiace, che nel mito si adira per non avere riconosciuto l’onore di ricevere le armi di Achille dopo la sua morte, nella Calabria di ndrangheta, si offende per questioni di onore sempre, ma inerenti a cummannare. E mentre lì viene allucinato da Atena, dea che parteggia per gli Atridi, qui viene obnubilato dalla cocaina, Dea dei giorni nostri che rende ricchi e pure folli. E gli Atridi che lì meditano vendetta, qui pure e ritrovandosi di fronte ad un suicida non possono che prendersela con la salma, rifiutandone la sepoltura. Nel finale invece, la storia cambia. Sofocle, nella sua tragedia, ci racconta di un Odisseo comprensivo che concede al coraggioso Teucro di seppellire il cadavere, ne U Tingiutu invece, Agamennone, in classico stile malavita, fa al suo determinato avversario Teucro quella che nel gergo criminale si chiama ‘a purtata: gli fa credere d’essere comprensivo e accettare la sepoltura e invece poco dopo fa una strage reimpossessandosi del cadavere per farlo sparire.
Questo finale contiene la rottura del parallelismo tra gli eroi epici e gli antieroi ‘ndranghetisti, come se quel senso dell’onore che resta intatto e sublima negli uni, venga invece tradito e mortificato negli altri, i quali non possono a giusto diritto, fregiarsi dei nobili tratti caratteriali dei primi.
Ed è questo l’effetto dell’impasto drammaturgico dello spettacolo: dissacrata e scarnificata, la ndrangheta ci appare per quella che è nel suo aspetto più interiore. Storia di uomini smarriti in un gigante d’apparenza. Rapinatori che rimpiangono un pigiama mancato. Eppure feroci. Capaci di sciogliere nell’acido bambini. Un contraddirsi di contraddizioni, una vita tutta pistola e santini, codificata per resistere in una immagine spessa come una corteccia.
Un tormento. Questo esprime Aiace nei suoi monologhi, Ulisse nei suoi gemiti, Teucro nella sua furia cieca. E Agamennone, l’unico che non balbetta, che cummanna senza indugiare, dritto nelle spalle, è lui la ‘ndrangheta, il suo busto eretto e quadrato, fiero e bello fuori come un eroe greco, contiene invece ben nascosto, viscere e serpenti, tutto il tormento di una vita che non vale la pena di fare. U Tingiutu tutto questo ce lo racconta e ce lo fa capire senza le urla della cronaca nera o gli eccessivi giri di parole dell’opinionismo d’assalto. È il teatro baby.
E U Tingiutu è teatro che inebria e ubriaca, sussurrando una storia millenaria che si ripete in ogni tempo e in ogni luogo costruendo giorno dopo giorno l’infinito cammino dell’umanità.
U Tingiutu è uno spettacolo di spessore, doppio come un cheesburgher e saporito come un panino con la soppressata, che ha nella struttura drammaturgica e nel disegno scenografico i punti di eccellenza. La grammatica del teatro è presente in scena dal primo all’ultimo minuto tanto da sollecitare più volte le curiosità espresse sottovoce degli spettatori alle prime armi.
Il ritmo parte lento come “la vava di una maruzza” e cresce, trovando picchi di pathos solidi e ubriacanti, nello svolgimento, per esplodere poi nel finale che è la ciliegiona sulla torta. Un intreccio creato con andirivieni temporali da copione cinematografico ci conduce attraverso le viuzze della dissacrazione di un fenomeno antropologico truce, ma ai momenti più scabrosi fanno da contrappunto svisate di autoironia. E questa altalena tra l’ironia e la crudezza è la maglia del racconto, essenziale, figurativo, sempre dritto al punto. L’assenza di qualsiasi giudizio morale rifugge il pericolo della retorica finto educational-channel. I personaggi stanno nel cliché attraverso cui sono disegnati, senza pagarne le conseguenze. All’interno degli stessi, gli attori sono credibili e capaci, ottenendo risultati eccelsi in più di un frangente. Ne vien fuori un fumetto noir in salsa nostrana, che ha il merito di dissacrare un fenomeno che ha la stazza d’un Polifemo, come? Con una tattica in stile malavita. Proprio come Agamennone, Dario de Luca fa una tipica “purtata” : prima solletica la ndrangheta, inorgogliendola e vestendola degli abiti dei miti greci, poi, la acciuffa con la rete a maglie del teatro e la dissacra evidenziandone il tormento estremo nel quale è costretta a vivere. In sottofondo il lamento di una terra che era meta ambita di quegli eroi epici ed oggi è la casa di questi antieroi smarriti e dolenti, il cui tormento sublima nel gesto estremo d’un Aiace di Calabria che s’uccide, uccidendo con sè la ndrangheta tutta. É il teatro, è il teatro, baby…

Silvio Stellato

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